Vivimi!

La guardavo mentre portava alla bocca il cucchiaio con la minestra. Lo faceva con pigrizia. Il gomito rimaneva incollato al tavolo e lo sforzo richiesto alla mano non era sufficiente per sollevarla all’altezza del viso. Questo costringeva la testa a protrarsi in avanti, ma non abbastanza da evitare risucchio e ritorno di cibo nel piatto. L’altra mano, invece, la teneva su una gamba, dimenticando di averla portata con sé. Non aveva problemi fisici. Non c’era nulla che potesse giustificare una tale incapacità. Nulla, a parte la sua svogliatezza e la mal disposizione verso tutto ciò che è vivere.

La vita e il pensare alla vita era già una gran fatica, per cui ogni partecipazione da parte sua era evitata, e l’idea le scivolava via come la pioggia su un impermeabile. Mentre della sua di vita era rimasto solo un ciclo fisiologico e istintivo.

Nonostante la sua incapacità, però, aveva una gran voglia di esserci. Temeva la morte come il fuoco teme l’acqua. La terrorizzava l’idea di dover chiudere gli occhi per sempre e non più trovarsi. Anche se non chiedeva altro che farsi vivere, se cercava a tutti i costi di aggrapparsi ad un’altra entità e farla sua, imprigionandola nella sua impotenza, considerava la propria presenza importante e meritevole di priorità.

Amava l’immobilità della sua gabbia. In essa, come l’acqua in uno stagno, si sentiva al sicuro, e più quel mondo diventava serrato ed uniforme, più diminuiva la sua percezione del trascorrere del tempo.

Meno vivi, più vivi! Pensavo, osservando la sua tranquillità nutrita dall’ostinazione e dall’ignorare che tanto aveva ricercato. Una tranquillità che non consentiva abbandono.

No, non andar via, resta, fallo per me!

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